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Tuesday, September 30, 2014

LA TASSA D'INCIVILTA'. ULI HOENESS vs. SILVIO BERLUSCONI

Il dibattito sull'articolo 18 è l'emblema dell'Italianità. Inutile. Tutti dicono che non è centrale, ma di fatto un imprenditore che ha 14 dipendenti prima di assumere a tempo indeterminato ci pensa 20 volte e questa è -anche, in parte- la causa del nanismo delle nostre aziende. Il nanismo non è necessariamente una connotazione negativa. Le PMI spesso sono aziende esemplari per organicità del lavoro, per il trattamento dei dipendenti, per la compattezza del modus operandi. Cose che aziende multinazionali si sognano. Ma il nanismo delle aziende è patologico quando è indotto dalla paura di assumere il 15esimo dipendente.

Onestamente non credo che l'art. 18 sia la causa di tutti i mali dell'Italia. L'effetto più devastante dell'Art.18 l'ho appena detto sopra... ma insomma, l'economia italiana ha sempre "tirato", con tutti i suoi limiti ma anche i suoi punti di forza, con le PMI, cioè senza l'art. 18. Allo stesso modo, non è che l'eliminazione dell'Art. 18 farà dell'Italia la nuova Cina.
La causa di tutti i mali dell'Italia siamo noi italiani. Quando c'è un'economia che va in recessione per anni c'è qualcosa di strutturale che IN MEDIA ci pone in deficit rispetto alla concorrenza. Se LA MEDIA è diversa, significa che la cosa riguarda DECINE DI MILIONI di Italiani. Cos'è che IN MEDIA ci rende poco competitivi rispetto alla Germania?

Noi italiani, sepolcri imbiancati, spariamo a zero sulla classe politica per scrollarci di dosso la nostra cialtronaggine. Non faccio un discorso di singoli individui, faccio un discorso di MEDIA. IN MEDIA, per dire ad un lavoratore "SEI UN CIALTRONE, UN FANNULLONE" in Germania ci si mette di meno. IN MEDIA, una decisione presa in Germania è più eseguita e meno discussa. In media, l'osservanza delle leggi in Germania è più alta che in Italia. Questo fa punti di PIL. Come?

Ecco come. L'Italia è quel paese dove una settimana fa due dipendenti della Meridiana hanno fatto causa all'azienda che li ha richiamati dalla Cassa Integrazione, per "creazione di una situazione di stress". ROBA DA MATTI, cosa che ha detto anche il giudice. Ma il giudice ci ha dovuto lavorare su questo caso assurdo. Il lavoro di questo giudice per questa cosa assurda è stato pagato anche da me. E nessun Cottarelli può agire su questo spreco ENORME. Lo spreco dei cittadini che cercano di fottere la collettività e ricorrono al giudice per delle cose assurde.

Se vogliamo studiare il perché la Germania non soffre della crisi Italiana, dobbiamo una volta per tutte affrontare e dire a chiare lettere quello che gli Americani chiamano "the elephant in the room": una cosa ENORME che sta nella stanza e di cui nessuno parla. L'elephant in the room è la nostra cialtronaggine media.

Uli Hoeness, mito del calcio tedesco nonché Presidente del Bayern Monaco fino a 6 mesi fa, si è dimesso da tutte le cariche dopo aver ammesso di aver evaso al fisco 28 milioni di Euro, accettando la pena di 3 anni e 6 mesi di reclusione inflittagli IN PRIMO GRADO. Ha RINUNCIATO ALL'APPELLO, Hoeness. Ha detto "E' vero, sono colpevole, me lo merito". In Italia è folle solo pensarlo, che uno ammetta di essere un evasore. In Italia Silvio Berlusconi, condannato in 3 gradi di giudizio per corruzione, ancora rompe le scatole al mondo intero sproloquiando sui giudici di sinistra che gliel'hanno fatta pagare.... QUANTA FATICA PROCESSARE BERLUSCONI, QUANTO E' STATO SEMPLICE PROCESSARE HOENESS.
Questo caso, moltiplicato per le 5 milioni di cause civili e 5 milioni di cause penali pendenti, fa MILIARDI E MILIARDI di risparmio, e non c'è Cottarelli che tenga, qui. E' un gap semplicemente di Civiltà. E' unvera TASSA D'INCIVILTA'. Sottolineo il fatto che "processare Berlusconi è stato più difficile" non intendo solo il comportamento ITALIANISSIMO dell'imputato, ma anche dei giudici che si sono scatenati a trovare il cavillo per incastrarlo. Perché, anche questo va detto, la condanna di Berlusconi è come se mi condannassero per aver corrotto per avere un vantaggio di 2 centesimi. FATICA. In Italia tutto è FATICOSO. L'Italia corre, come ho sempre detto, i 100 metri piani mentre qualcuno le tira il sangue. E non parlo solo della corruzione che IN MEDIA è più alta in Italia. Non parlo della lentezza dei processi IN MEDIA più lunghi. Non parlo neanche della mafia e delle organizzazioni criminali. Oltre a questi punti, o meglio impastato con questi e causa di questi punti, c'è la cialtronaggine e la fanfaronaggine dell'Italiano Quadratico Medio, di colui che svicola dalle proprie responsabilità, a tutti i livelli.

Sogno un leader politico che un giorno mi dica "Italiani, siamo un pugno di cialtroni e su questo dobbiamo lavorare". Parlerebbe finalmente dell'elephant in the room. Ovviamente non avrebbe un voto che sia uno... no, anzi, avrebbe il mio voto.
Ma i movimenti populisti stile M5S, il massimo che riescono a dirci non è "siamo mediamente dei cialtroni", ma "loro, la casta, sono dei ladri e cialtroni". Ma nessuno che dica che la casta politica rappresenta perfettamente l'Italiano quadratico medio.

Di fronte all'Italiano Quadratico Medio, non esiste Articolo 18 che tenga. Sia che rimanga, sia che venga tolto.

Tuesday, September 23, 2014

Articolo 18. Un nonsenso tutto italiano.

Da alcune settimane assisto attonito al dibattito sull'articolo 18. E' paradossale.

Il mio non è un intervento da giurista, ma da una persona dalla mentalità scientifica che cerca di usare la logica.
I signori che si scalmanano sull'uso dell'Art.18 dovrebbero studiare bene il #casomicron, che, se la logica nella vita ha un senso, è il paradigma di come una qualsiasi azienda possa fare e disfare a proprio piacimento.

Parlo di esperienza di vita vissuta, che riassumo:

Giorno 20 Gennaio 2014 i rappresentanti locali dell'azienda, riuniti al Ministero Italiano Sviluppo Economico, dichiarano che Micron ha urgente bisogno di una ristrutturazione.

Giorno 21 Gennaio 2014, sordi ad ogni tipo di richiesta dilatoria da parte delle RSU, viene aperta in maniera formale la procedura di mobilità per 419 lavoratori di Micron.

Giorno 5 Maggio 2014 molti di questi lavoratori entriamo in Cassa Integrazione Straordinaria.

Fine del discorso.

Del gruppo di Ricerca e Sviluppo, 12 persone su 159 sono state licenziate. Tutte di Catania, tenute tutte le 147 persone di Agrate. In maniera del tutto informale, senza alcuna intenzione bellicosa, ci informiamo con un avvocato del lavoro se potrebbe configurarsi un'ipotesi di discriminazione territo. La risposta è stata lapidaria "Hanno il diritto a riorganizzarsi come vogliono".

Allora:

DATI: un'azienda -Micron- che nell'ultimo anno ha fatturato 14 Miliardi di dollari, circa 4 Miliardi di utili netti- decide di compiere un massacro, compila la procedura di mobilità e la passa assolutamente liscia.

DOMANDA 1: A CHE SERVE L'ART.18?

La Micron, o chi per lei, gli avvocati che hanno curato la procedura, i rappresentanti legali, ha dimostrato in maniera inequivocabile che è possibile lo scempio di massa quando le condizioni sarebbero le peggiori per una contestazione (fatturati record e salute di atleta).

E' l'art. 18 solo una forma per dare qualche appiglio ai sindacati per fare sentire la propria voce?

Alla fine, chi è ben determinato, va avanti e conclude alla perfezione la vertenza. Micron ha ottenuto quello che voleva (cioè la riduzione di 300-350 unità), semplicemente facendo un calcolo inverso: "questo è quello che vogliamo ottenere, questo è quello che dobbiamo cedere di trattativa, aumentiamo leggermente il numero dichiarato iniziale per arrivare al risultato".

Cosa avrebbe cambiato l'assenza dell'Art. 18? Lo vogliamo togliere per evitarci la buffonata di discorsi di principio, che un'azienda seria e determinata ha saputo by-passare con estrema semplicità?

DOMANDA 2: O addirittura l'art. 18 è una ghigliottina solo per chi non si può permettere dei costi per pagare studi legali che compiano il lavoretto perfettamente, ripulendo come il Wolf di Pulp Fiction tutte le macchie di sangue spruzzato dappertutto durante la carneficina?

Per chi ha voglia, ecco sotto il testo dell'articolo 18.

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Art. 18.
Reintegrazione nel posto di lavoro. (1)

Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell'articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell'articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all'articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell'articolo 1345 del codice civile, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità di cui al terzo comma del presente articolo. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale. (2)
Il giudice, con la sentenza di cui al primo comma, condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. (2)
Fermo restando il diritto al risarcimento del danno come previsto al secondo comma, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta dell'indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione. (2)
Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall'illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative. In quest'ultimo caso, qualora i contributi afferiscano ad altra gestione previdenziale, essi sono imputati d'ufficio alla gestione corrispondente all'attività lavorativa svolta dal dipendente licenziato, con addebito dei relativi costi al datore di lavoro. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del terzo comma. (2)
Il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo. (2)
Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, della procedura di cui all'articolo 7 della presente legge, o della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, si applica il regime di cui al quinto comma, ma con attribuzione al lavoratore di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo. (3)
Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell'ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero che il licenziamento è stato intimato in violazione dell'articolo 2110, secondo comma, del codice civile. Può altresì applicare la predetta disciplina nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione dell'indennità tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell'ambito della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo. (4)
Le disposizioni dei commi dal quarto al settimo si applicano al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell'ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all'impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti. (29) (4)
Ai fini del computo del numero dei dipendenti di cui all'ottavo comma si tiene conto dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all'orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge e i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale. Il computo dei limiti occupazionali di cui all'ottavo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie. (4)
Nell'ipotesi di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell'impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente articolo. (4)
Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
L'ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l'ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell'articolo 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile.
L'ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa.
Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all'ordinanza di cui all'undicesimo comma, non impugnata o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della retribuzione dovuta al lavoratore. (5)